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"La settimana rossa ad Ancona e Fabriano" di Stefano Gatti PDF Stampa E-mail

Ad Ancona, domenica 7 giugno 1914 si svolgono, come in molte altre città d’Italia, le celebrazioni governative per lo statuto; contemporaneamente i sovversivi organizzano manifestazioni antimilitariste. Nell’incontro del pomeriggio intervengono circa seicento persone: parlano Pietro Nenni per i repubblicani, Errico Malatesta per gli anarchici, Ercoli per i socialisti, Pelizza per la camera del lavoro e Livio Ciardi per i ferrovieri. Alle ore 18.35 tutto è finito: sembra che la manifestazione debba sciogliersi senza complicazioni di ordine pubblico. Invece, all’uscita di Villa Rossa si forma spontaneamente un assembramento di circa duecento persone, le quali, al canto dell’inno dei lavoratori, cominciano a scendere per via Torrioni con l’intento di giungere in piazza Roma, dove in quel momento la banda del Buon Pastore sta iniziando il concerto con la marcia reale.
Per impedire ai dimostranti di arrivare in centro, il commissario che comanda la forza pubblica (una sessantina di uomini) fa bloccare la via sia dall’alto sia in basso, con l’intenzione di disperdere la folla verso la campagna. L’urto fra i due schieramenti è inevitabile e, dopo una scaramuccia che vede alcuni agenti colpiti da sassi e pezzi di mattone, i carabinieri sparano: uccidono due giovani, l’anarchico Attilio Giambrignoni, di ventidue anni, e il repubblicano Antonio Casaccia, ventiquattrenne, e ne feriscono un terzo, il repubblicano Nullo Budini, di anni diciassette, che muore il giorno dopo per le ferite riportate. La notizia di quest’ennesimo eccidio proletario giunge in poco tempo in ogni parte d’Italia e lo sciopero generale è la risposta che le organizzazioni sindacali e politiche dei lavoratori attuano. Ma nelle Marche e in Romagna lo sciopero assume un carattere insurrezionale, tanto che si può parlare realmente di settimana rossa.
  a Fabriano:
 la storiografia nazionale ricorda la cittadina marchigiana evidenziando che essa viene sostanzialmente controllata dai rivoltosi, che la forza pubblica rimane asserragliata all’interno degli edifici comunali e governativi, che la bandiera rossa è issata sul campanile del municipio, che viene occupata totalmente la stazione ferroviaria, che sono tagliate le comunicazioni telegrafiche e telefoniche, che vengono sospese tutte le cerimonie religiose, che è imposto a molti proprietari di consegnare il denaro alla popolazione, che ancora una volta i carabinieri sparano ed uccidono. Questo accade in quei sette giorni a Fabriano
 domenica 7 giugno: in serata giungono da Ancona le prime notizie dell’eccidio. Repubblicani, anarchici e socialisti fabrianesi si riuniscono presso l’oratorio della carità 
 lunedì 8 giugno: si muovono gli operai delle cartiere che, nel primo pomeriggio, abbandonano il lavoro e si recano in centro. Proclamato lo sciopero generale e chiusi tutti i negozi, la cittadinanza si raduna verso le ore 17 in piazza Vittorio Emanuele e dal balcone del palazzo comunale, dove è esposta la bandiera a mezz’asta, parla Bennani, che raccomanda la calma ed invita i dimostranti a mantenersi compatti. Mentre nelle sedi dei partiti sovversivi e in molte case private sventolano le bandiere rosse, le forze di sinistra costituiscono un comitato cittadino di agitazione che prepara in tutta fretta un manifesto nel quale si denuncia “lo scempio di vite umane fatto in Ancona” e si comunica la decisione dello sciopero “in segno di protesta e di lutto”
 martedì 9 giugno: nella mattinata, pur proseguendo l’astensione dal lavoro, alcuni negozi che vendono generi di prima necessità (macellerie, caffè, tabacchi) rimangono aperti, per assicurare i necessari rifornimenti, mentre alcune squadre di operai ottengono senza intralci dai direttori delle scuole elementari e superiori di licenziare gli alunni e di arrestare ogni attività in segno di solidarietà. Verso le 9.30 un gruppo di manifestanti – in buona parte ragazzi – che è andato alle fornaci Mercurelli-Giuli per invitare i lavoratori a scioperare, vedendo giungere il diretto 907 proveniente da Ancona per Roma, si dispone lungo i binari obbligando i macchinisti a fermare il treno: l’episodio richiama alla stazione una folla numerosa che impedisce al convoglio di proseguire. Bennani, Venanzo Brunetti (maestro elementare repubblicano) e l’avvocato Segantini giungono alla stazione per parlare ai dimostranti invitandoli a contenere l’agitazione e per assicurare che nessun altro treno ripartirà. Vengono bloccati i treni merci e passeggeri provenienti da Urbino, Macerata, Ancona e Foligno, e su un fanale lungo i binari è appesa una corona con nastro rosso e la scritta: “agli assassinati dal piombo regio il proletariato fabrianese”. La stazione ferroviaria rimane un costante punto di riferimento per gli scioperanti. Da qui alle 19.30 parte un corteo verso il centro della città: in piazza Vittorio Emanuele parla l’anarchico Giuseppe Vedova, ma nel corso del comizio si registrano prima contestazioni e poi scontri con i carabinieri, che si concludono solo grazie alla mediazione di alcuni, tra i quali Luigi Fabbri, anarchico fabrianese già noto a livello internazionale. La giornata si chiude con la proclamazione dello sciopero generale a tempo indeterminato. Verso le ore 23 alcuni dimostranti tornano alla stazione per accettarsi che il traffico ferroviario sia sospeso e qui esortano gli impiegati a spegnere le luci degli uffici e a chiudere le porte. Di fronte al diniego di quelli, la folla devasta gli uffici e frantuma gli impianti telegrafici. Nella notte vengono nuovamente tagliati fili telegrafici e telefonici e si invita il guardafili a desistere da ulteriori tentativi di riparazione
 mercoledì 10 giugno: è il giorno dell’episodio increscioso su cui liberali, conservatori e cattolici, per demolire e ridicolizzare il tentativo insurrezionale, scriveranno dalle colonne dei loro giornali, insistendo sulla repubblica di Fabriano e dei polli a cinque soldi, riducendo quindi tutta la settimana rossa ad un solo evento. Accade che un impiegato delle ferrovie, notato un carro contenente polli chiusi in gabbia e morenti di fame, decide di vendere quella merce a prezzi irrisori, provocando un vero e proprio assalto dei furbi, che si portano via alcune merci rimaste incustodite. Presto intervengono alcuni dirigenti proletari che riescono a rincorrere i ladri, costringendoli a restituire la refurtiva. In serata alcuni proprietari mettono a disposizione dell’amministrazione comunale, che è ovviamente dalla parte degli insorti, le chiavi dei loro magazzini per rifornire le famiglie più bisognose di generi di prima necessità, eliminando quindi il pretesto per ulteriori tumulti. I proletari riescono quindi a circoscrivere, punire e risolvere l’episodio di delinquenza su cui per tanto tempo la stampa conservatrice satireggerà
 giovedì 11 giugno: è il giorno della tragedia. Dopo mezzogiorno si sparge la voce che stanno per giungere in città centocinquanta bersaglieri ciclisti. I proletari ritengono che loro faranno causa comune con il popolo, dal momento che è già successo in altre località marchigiane e in Romagna. Lo stesso Malatesta, ad Ancona, ha ordinato di fraternizzare con l’esercito e di trattare in maniera ostile solo i carabinieri e gli agenti di pubblica sicurezza. I bersaglieri arrivano e verso le ore 18 una loro compagnia, comandata dal capitano Bosio, insieme a quattro carabinieri e al brigadiere Gaetano Guercio viene inviata dal delegato De Vita a presidiare la stazione. Qui vi trovano una folla consistente e il capitano Bosio inizia a parlamentare con i dimostranti che temono che il servizio ferroviario venga riattivato. Nel frattempo il brigadiere Guercio, insofferente della situazione, si fa incontro alla folla, ma viene disarmato, ferito con un coltello e trascinato verso il piazzale. Nella colluttazione il carabiniere Besso, che nei giorni precedenti ha già manifestato atteggiamenti minacciosi verso i proletari, apre il fuoco animato dagli altri tre compagni, provocando uno sbandamento generale: viene ucciso sul colpo il sedicenne Nicolò Riccioni e gravemente ferito il dodicenne Settimio Frigio
 venerdì 12 giugno: in una Fabriano sdegnata e in lutto per l’assassinato dal piombo regio, arrivano una compagnia di granatieri ed uno squadrone di lancieri. Si iniziano i lavori per ripristinare il normale servizio ferroviario
 sabato 13 giugno: nel primo pomeriggio, mentre arrivano a Fabriano i primi treni, si svolgono i funerali di Riccioni, pagati dall’amministrazione comunale, che partecipa compatta assieme a migliaia di cittadini. Il militante repubblicano Carlo Mannucci e il maestro Alberelli, dell’orchestra del teatro Gentile, rendono l’estremo saluto
 domenica 14 giugno: i negozi, le rivendite e gli uffici pubblici riaprono in un clima di relativa calma, seguiti il giorno dopo dalle cartiere e dalle altre fabbriche.
Le indagini vengono condotte con frettolosa approssimazione, privilegiando considerazioni di natura strettamente politica. La maggior parte degli individui arrestati per aver partecipato a “fatti diretti a mutare la forma di governo” e per “istigazione a delinquere”, sono proprio coloro che più si sono prodigati a mantenere la protesta nei limiti della legalità: il socialista Bennani, il radicale Lacchè, i repubblicani Ermete Corradi, Brunetti e Cleteo Mannucci, gli anarchici Amedeo Angelini, Avondo Solazzi, Alfredo Sparisci, Giovanni Mariotti e Giuseppe Vedova, quest’ultimo insieme ai figli Domenico e Rubens (Luigi Fabbri per sfuggire alla cattura ripara a Lugano). In breve tempo gli imputati salgono da tredici a sessantasei. Il sindaco Pagnani esprime alle famiglie degli arrestati il “rincrescimento” delle autorità comunali e la stessa giunta deplora la carcerazione di quelle persone, che saranno liberate soltanto nel mese di dicembre.
 Purtroppo per i proletari fabrianesi, liberali e cattolici hanno buon gioco nell’evocare la tanto sospirata pacificazione sociale e nell’utilizzare, nella competizione amministrativa del 27 luglio 1914, la naturale reazione dei ceti medi all’insurrezione di giugno. La democrazia sovversiva di Fabriano si presenta per il comune con un’unica lista di protesta; protesta contro la repressione seguita alla settimana rossa, protesta contro il governo e le eventuali “nuove imprese militaresche” in cui potrebbero venir gettati i figli del proletariato. Ma la vittoria conservatrice è schiacciante: alla lista di protesta vanno solo sei seggi su trenta (tra i non eletti c’è pure Pietro Nenni, futuro segretario nazionale del Psi e vice-presidente del consiglio dei ministri). Anche per tutto il proletariato italiano la sconfitta, di cui responsabili sono anche i sindacalisti socialisti della Cgl, che prendono le distanze ordinando ai propri lavoratori di tornare al lavoro, segna un momento fondamentale della propria storia.

 
Engles Profili 2010 - Pubblicazione a cura di Lykonos